Prima ancora della
definitiva sconfitta di Napoleone (Waterloo, 19 giugno 1815), i
rappresentanti delle potenze vincitrici con l'aggiunta di Talleyrand
per la Francia, si erano riuniti a Vienna per rimettere tutte le cose
al loro posto, scompigliate com'erano a causa dei due cicloni
Rivoluzione-Napoleone. Ma alla fine non tutto fu come prima. In Italia
tornarono i vecchi prìncipi, ma a parte San Marino, furono
cancellate tutte le preesistenti repubbliche. Del resto, esse erano
ormai diventate una sorta di signorie oligarchiche per lo più in
piena decadenza. Gli ideali di libertà, uguaglianza,
fraternità fioriti all'ombra dei tanti tricolori sembravano
definitivamente morti e sepolti. Ma non era così.
Un
silenzio ribollente
Dopo il 1815 il verde il bianco e il rosso scomparvero dalle piazze d'Italia. Di patrioti pronti a immolarsi neanche l'ombra. Una quiete mortale. Tuttavia, per dirla con un'espressione cara ai Carbonari, «il fuoco covava sotto la cenere». Il primo ribollimento avvenne nel 1820-21. La rivolta di Palermo, i moti carbonari a Nola e in Piemonte scoppiarono forse troppo presto per non fallire e di tricolori in giro se ne videro ben pochi. Ma nel 1830 il vento della rivoluzione ricominciò a soffiare e ancora una volta proveniva dalla Francia. I moti del 1831, ugualmente fallimentari, più limitati di quelli del 1820 investendo solo Parma, Modena e lo Stato della Chiesa, furono tuttavia gravidi di conseguenze e riportarono alla luce il tricolore. Molti comuni grandi e piccoli lo esposero e ancor oggi alcuni di essi si contendono il riconoscimento di averlo fatto per primi. Il 26 febbraio nacque anche un nuovo stato, le Province Unite Italiane, che comprendeva l’Emilia-Romagna, le Marche e l’Umbria, il cui governo adottò il tricolore come bandiera nazionale ufficiale. Dovette cedere alle truppe austriache appena due mesi dopo. Apparve l’uomo nuovo, Giuseppe Mazzini, il quale, insoddisfatto delle strategie carbonare, fondò a Marsiglia (ottobre 1831) la Giovane Italia, la cui bandiera fu il tricolore. Ben presto la pax austriaca fu ristabilita e i colori italiani messi fuorilegge. La Francia da cui si sperava solidarietà e concreto appoggio aveva taciuto. Le sporadiche insurrezioni degli anni che seguirono furono tutte represse, ma la macchina del risorgimento era ormai in moto. |
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Il quarantotto Nel 1846 il cardinale Mastai Ferretti diventa papa col nome di Pio IX. La sua politica liberale riaccende le speranze e le bandiere dello Stato Pontificio si adornarono di cravatte tricolori. Ed eccoci al 1848, l'anno cruciale. Le prime avvisaglie in Sicilia (Messina) già nell’ultimo scorcio del 1847. Palermo insorge il 12 gennaio 1848, segue la Toscana, i ducati di Parma e di Modena, Milano (le Cinque Giornate, 18-23 marzo 1848), Venezia, il Piemonte. Lo stesso Pio IX, deluse le aspettative, deve riparare a Gaeta e nasce una seconda Repubblica Romana. I vari sovrani, uno dopo l’altro, spaventati delle nubi nerissime che si addensano anche sul resto dell’Europa, si affrettano a concedere la costituzione e ad adottare il tricolore come bandiera di stato, magari aggiungendovi il loro stemma. Non fa eccezione il regno di Sardegna: in fretta e furia viene allestita una bandiera tricolore con al centro lo stemma sabaudo orlato di azzurro che occupa in larghezza tutta la striscia bianca; è il cosiddetto «modello Bigotti», dal nome di un segretario del ministero dell’Interno che ne aveva lì per lì tracciato il disegno. Sarà questa la bandiera, approvata il 27 marzo 1848, con la quale Carlo Alberto, ponendosi decisamente alla testa del movimento risorgimentale, combatterà la prima guerra d’indipendenza. Essa, a differenza di tutti gli altri tricolori, ammainati nel giro di pochi mesi in seguito alla controffensiva austriaca, resterà. Rimodellata nel disegno il 2 maggio 1851, cesserà di essere la bandiera del regno di Sardegna solo per diventare quella del regno d’Italia.
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L'Italia unita Al 1848 seguirono due
lustri di grandi speranze e forti delusioni fino all'incontro di
Plombières (21 luglio 1858) tra Cavour e Napoleone III che
produsse l'intervento francese (decisivo ma incompleto), ma anche il
sacrificio della Savoia e di Nizza, patria di Garibaldi. Dalla
"saldatura" di Teano (26 ottobre 1860) tra nord e sud nacque finalmente
un paese unito e il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d'Italia. Il
re di Sardegna Vittorio Emanuele II diventò il re d'Italia.
Nella stessa data il tricolore tornò ad essere la bandiera
italiana.
Tuttavia su alcuni pezzi d'Italia, e per di più di fondamentale importanza, il tricolore non sventolava ancora. Ci volle un'altra guerra contro l'Austria perché Venezia e il Veneto tornassero all'Italia il 22 ottobre 1866, mentre bisognò mettere a dura prova il sentimento religioso di gran parte italiani per sottrarre Roma al papa il 20 settembre 1870. Il Trentino-Alto Adige e la Venezia Giulia sarebbero stati annessi solo dopo la prima guerra mondiale. Attraversata la prima metà del XX secolo - forse il periodo più tragico nella storia dell'umanità - il regno d'Italia diventò una repubblica (2 giugno 1946) e il tricolore si spogliò dello stemma sabaudo recuperando la primigena semplicità. |
Epilogo Una grande bandiera
la nostra.
Grande non perché, come impone la retorica di certi periodi
storici,
«è intrisa di gloria e di ardimento»; su quel
drappo,
a ben vedere, ai riflessi di gloria e di eroismo si accompagnano ombre
di
vergogna, di viltà e di sconfitta, siccome la nostra storia,
come
quella di qualsiasi paese è storia di uomini comuni e solo
raramente di eroi. Sulle immagini che illustrano i fatti e i misfatti
nazionali, dalle stampe ottocentesche alle fotocronache stinte fino ai
moderni reportages, il tricolore trova sovente posto in qualche
angolo; perché nonostante i rivolgimenti della storia e i
mutamenti di regime, con costanza e pertinacia, gli italiani lo hanno
ogni volta riconfermato. Dopo l'8 settembre 1943 la guerra civile
dilaniò il paese, ma tutte le parti in lotta alzavano il
tricolore. Sta appunto qui la grandezza della nostra bandiera: l'essere
profondamente radicata nel nostro modo di pensare e di vivere; uno
stato che cambia spesso la sua bandiera non ha in fondo un vero simbolo
nazionale; in Italia, a dispetto delle nostre divisioni fra mille
campanili e dell'apparente atteggiamento di indifferenza verso i valori
nazionali, le bandiere regionali e locali hanno sempre avuto scarso
rilievo e anche le più fortunate non riescono neanche ad
avvicinare la forza e il potere di suggestione del tricolore.
Un luogo comune vuole che gli italiani si ricordino della loro bandiera solo in occasione delle partite della nazionale di calcio. In effetti c’è un certo pudore a esporla alle finestre. Ma credo che vada bene così: esibire il tricolore a destra e a manca, appiccicarlo qua e là come un qualsiasi gadget o metterselo giorno e notte all’occhiello della giacca, ne deprimerebbe la forza. Lo sventolìo negli stadi dimostra che la gioia è collettiva, esprime un senso di appartenenza. Lo stesso consolatorio senso di appartenenza che molti avvertono nei momenti di dolore, quando la bandiera accompagna nell’ultimo viaggio chi è caduto in servizio della comunità, o in altre tristi circostanze. La nostra bandiera è anche bella. Semplice e essenziale, colori squillanti che si stagliano molto bene su qualsiasi sfondo. Umberto Nobile, sorvolando il polo nord, getta la bandiera e, anziché cedere alla retorica che all’epoca dilagava, è piuttosto catturato dalla bellezza della scena. Così racconta nel libro In volo alla conquista del segreto polare: «…ha l’orlo
sfilacciato dal vento, un po’ lacera, assai bella. La prendo fra le
mani e la sporgo fuori della cabina. Il vento l’investe gonfiandola:
essa mi palpita tra le mani come un’ala viva. Lascio andare. La vedo
scorrere lungo la parete della cabina e impigliarsi nel derivometro, …
poi si distende, si spiega tutta, discende solennemente. La vedo
fluttuare: i bei colori attraverso l’aria fredda e trasparente vibrano
contro il biancore immacolato. … La
bandiera raggiunge il ghiaccio, vi si abbatte, scompare.»
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(Storia dell'emblema della Repubblica) © 2003 -
Roberto Breschi
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